Tutto sommato la quarantena non è andata male.
Vivo in maniera privilegiata in una casa in campagna, abbastanza isolata anche in tempi normali e senza troppi vicini. Non sono solo, mio padre e il mio amore sono con me. E tutto sommato non è andata male, poteva andare peggio, potevo ritrovarmi in un piccolo appartamento in condominio e cantare dal balcone. E per fortuna non ce l’ho.
Invece davanti alla porta di casa il campo mi segnalava l’arrivo della primavera, il primo sole scalda le piante, sbocciano i primi fiori e scalda anche me che a volte ci passeggio godendomeli. E quindi tutto sommato non era male.
Nel tempo lento di questa quarantena ho rivalutato i prodotti del campo che mio padre coltiva e li ho usati come base privilegiata dei nostri menu quotidiani. Sono usciti i primi carciofi, fave fresche, qualche cicoria, una quantità sterminata di uova, poi il pane fresco e la pasta a base di farro che avevamo coltivato. Ammesso che si trovasse in commercio il lievito o la farina 00, dedicarmi alla cucina con tutta calma è anche un modo per impiegare il tempo in azioni pratiche e utili. A parte qualche forchettata di troppo, la qualità dei pasti è migliorata e anche l’orario è costante. Vuoi mettere mangiare prodotti che tu stesso hai coltivato con quelli che compri? E poi quanto avrò risparmiato? Un botto, ho impiegato il mio tempo evitando sprechi, perciò potrei spendere diversamente i miei soldi un giorno. Fila come discorso? Forse sì, e da buon furesacchio me ne convinco ogni giorno di più. E quindi tutto sommato non è andata male.
Non ho avuto alcuna voglia di protestare quando ci hanno chiesto di fermarci, di stare a casa e di non lavorare, non frequentare amici e parenti, e di non uscire se non per comprovati motivi. Forse da tempo non mi andava più di vivere in una perenne corsa, di non gestire il tempo per me e le mie passioni, di non gestire nemmeno il mio guadagno in un continuo rilancio di tassazioni e investimenti. Non avevo grandi motivi per protestare, lo ammetto, e l’idea di evitare a me e ai miei cari il contagio mi è sembrato una strategica copertura. E così le prime settimane sono passate fra grandi mangiate, qualche breve sgarro per comprare beni necessari, le conferenze stampa alle 18 o “Radio Londra” come ormai la chiamavamo, un buon libro, qualche film che avevo perso in sala o serie tv on demand (dal momento che la tv qui a casa non c’è da almeno dieci anni). Direi che tutto sommato non era male.
Non recito più. Questo sì che è un male. Purtroppo il teatro non si può fare in altre soluzioni, se non in presenza nello stesso luogo di attore e pubblico. Perciò fin dal primo momento non mi sono concesso dirette social o repliche virtuali degli spettacoli della compagnia o altre letture. Mi sono voluto concedere invece la riflessione, la creatività e la discontinuità che questo momento mi suggeriva e come artista ne ho approfittato, perché ostinarsi a continuare facendo finta di niente non è sostenibile.
Prima o poi la realtà va accettata: il teatro oggi si declina al tempo imperfetto. Certo, il teatro come decine di altre cose e non è detto che il teatro sia fra quelle importanti. Di sicuro lo è per me, che quando dico recitare dico lavorare, che quando dico teatro intendo anche salario, oltre a colleghi, compagni di viaggio e committenti. Quando dico teatro dico pubblico,
quasi sempre il mio unico committente. La scelta di non tenere vivo il rapporto col pubblico in altre forme è quindi rischiosa, perché è il pubblico il mio principale sforzo e impegno che potrei definire come ‘lavoro’. Ma tutto sommato non va male. Perché non credo che farsi vedere in dirette streaming o repliche aumenti il pubblico, semmai tiene vivo il rapporto con gli addetti ai lavori, ma in forma diversa come dicevo, praticando il tempo imperfetto. E ammetterete che è un po’ triste, consolatorio o a volte apertamente polemico. E giacché spesso le sale erano vuote anche prima e il rito del teatro poteva perpetuarsi solo grazie a finanziamenti pubblici, questo è il momento ideale per pensarsi al tempo futuro. Un’ottima occasione creativa, teorica e di nuove prassi che sono sicuro già appaiono all’orizzonte, se ci si sforza di vedere e non di guardare.
Quindi ho comprato occhiali buoni e cercherò di mettere a fuoco.
Il mondo durante la quarantena ci ha ridato il tempo lento che avevamo perso. Ha dato un valore al contatto fisico che prima snobbavamo, preferendo contatti social o stronzate fra un apericena e un happy hour. Ci ha restituito la cucina e i suoi sapori, le telefonate alle persone a cui teniamo, i vecchi, la solidarietà, la certezza inconfutabile che siamo noi umani a distruggere il pianeta. Lo stesso pianeta che ha tirato un sospiro di sollievo all’inizio del nostro letargo: animali che gironzolano incontrastati abitando strade e piazze vuote, buco dell’ozono e inquinamento miracolosamente ridotti, mari e fiumi più puliti anche in centro cittadino. Spunta anche il verde-blu dei fondali e qualche cigno alla ricerca di un pesce. La natura ci sta dicendo con chiarezza che il virus siamo noi.
Ma tutto sommato non è andata male, se per un po’ chi era ricco oltre ogni immaginazione se ne è vergognato, se abbiamo messo da parte il mondo del lusso smisurato e degli influencer riscoprendo il valore di medici, infermieri, contadini, il coraggio delle cassiere, dei rider e dei netturbini, l’ardimento di insicuri prof che fanno lezioni online con la ricrescita e il baffetto in bella vista; non è andata male se ai giornali dai titoli troppo urlati e alle notizie false che scommettono sulla paura a scapito della deontologia abbiamo preferito scienziati e umanisti, e pure qualche politico e la loro infinita serie di decreti.
Ma questo periodo è finito e devo ammettere che qualche contraccolpo l’ho avuto, già nei giorni precedenti il 4 Maggio. Se tutti attendevano con frenesia la fine della quarantena, io ho affrontato la cosa con un po’ di apprensione. Come mai? Da ora in poi tutte le riflessioni fatte in questo periodo di sospensione attendono di diventare realtà o di essere disilluse e dimenticate. E non solo per me, per ognuno di noi, che abbiamo fatto esperienza di essere coraggiosi o fifoni, di amare gli altri o preferire la solitudine, di sopportare il silenzio oppure di odiarlo, di essere generosi o egoisti, di amare la persona giusta o quella sbagliata, di fare il lavoro che desideravamo o se era un ripiego etcetera etcetera.
Lasceremo che queste nuove consapevolezze ci inducano ad un cambiamento?
O, pur avendo capito, resteremo vittime della nostra natura?
Chi lo sa se andrà male.